L’aiuto: le cose che non cambiano

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Kathryn Stockett, scrittrice americana, impiega cinque anni per scrivere il suo primo romanzo e riceve ben sessanta rifiuti da varie case editrici prima di riuscire a pubblicarlo nel 2009. La storia è talmente coinvolgente che diventa presto un best seller e un suo amico regista, Tate Taylor, decide di trarne un film due anni dopo: The Help, L’aiuto, un titolo forse troppo semplice per un film di straordinario valore.

Siamo nell’America degli anni ’60, precisamente a Jackson nel Missisipi, uno dei posti in cui il razzismo ha radici ancora profonde e forti e vittime ne sono le donne afroamericane, che per guadagnarsi da vivere lasciano i loro figli a casa per accudire quelli delle famiglie bianche e benestanti. Senza di esse, probabilmente, anzi, sicuramente, le famiglie ricche e borghesi si sarebbero sfasciate prima che le mogli americane, impeccabili nelle loro acconciature vaporose, fossero riuscite a farsi il segno della croce entrando in chiesa.

Il loro impegno sociale a favore dei più bisognosi è più falso dei loro rapporti amicali e di vicinato, pronte a giudicare fino all’ultimo dettaglio dell’abbigliamento e dell’arredamento dell’amica di turno. Il perbenismo è l’impietosa facciata ad un’arretratezza che spinge queste donne ad impedire alle loro domestiche, le vere madri dei loro figli, ad usare i loro servizi igienici personali per evitare contagi di fantomatiche malattie “nere”. Questa, una delle tante crudeltà nei loro riguardi.

Eugenia Phelan, però, nonostante la sua estrazione sociale, è l’outsider del circolo delle madri e mogli perfette. È stata cresciuta da Constantine, la domestica cacciata di casa senza pietà per un “affronto” imperdonabile alla reputazione della madre.

Eugenia, ragazza sveglia, audace e soprattutto sensibilmente avanti rispetto alle sue coetanee, sogna di diventare scrittrice e decide di parlare di qualcosa che nessuno aveva mai avuto il coraggio di denunciare: la condizione sociale delle domestiche afroamericane nelle famiglie bianche americane.

Con l’aiuto di due donne al servizio di sue “amiche”, Eugenia riesce a coinvolgere tutta la rete di balie di colore di Jackson, ognuna delle quali offre la propria testimonianza, un prezioso tassello di una storia troppo a lungo taciuta e che diventa ben presto un libro celebre.

Di recente, ho avuto l’occasione di vedere questo film e solo alla fine mi sono dovuta ricredere sul suo titolo così poco cinematografico, a mio parere. L’aiuto, nasconde dietro quelle poche lettere il senso più profondo e meno considerato del rapporto di reciprocità tra esseri umani diversi per nazionalità, colore della pelle, religione, credo politico o che dir si voglia. È l’anello che collega le società più disparate, i gruppi, i sotto-gruppi, in un unico genere, quello umano.

L’aiuto che le donne africane portarono nelle case degli americani non ha probabilmente un equivalente monetario adeguato al loro impegno nell’accudire la casa e i bambini, nell’insegnare loro il rispetto dell’altro, la gentilezza, la forza di credere in sé stessi.

È con questo esempio che la protagonista, Eugenia, è cresciuta e grazie ad esso è riuscita a realizzare il suo sogno e ha provato ad aiutare, a sua volta,  a riscattare la dignità di coloro che, come la sua balia, avevano sostituito la madre biologica.

Nello stesso periodo in cui ho visto il film, quasi per uno strano scherzo del caso, ho purtroppo assistito anche ad uno spettacolo aberrante: il video sugli immigrati del Centro di prima accoglienza di Lampedusa, messi in fila, nudi, in pieno inverno per essere “disinfettati” da getti di acqua gelida e potente in modo da evitare la diffusione della scabbia.

Film e realtà, anni ’60 e attualità si mescolano senza soluzione di continuità. Mi viene da pensare che non sia cambiato nulla da allora. Mille passi avanti, lotte e sacrifici per poi ritornare al punto di partenza. Ma una riflessione più attenta, non può non farmi guardare al fatto che un cambiamento inesorabile è avvenuto: il modo con cui questi fenomeni si raccontano e si comunicano. Passare da un film ad video registrato con uno smartphone è sintomo di un passaggio ad una realtà aumentata dove reale e virtuale coesistono, modificando per sempre i nostri modi di recepire, percepire e interpretare le notizie e la realtà.

Certo, gradiamo di gran lunga le versioni letterarie e cinematografiche perché sembrano “addolcire” (nessun termine, neanche questo, sarà mai adeguato) le scelleratezze di cui l’uomo è stato capace nella storia. Ma un video shock come il suddetto ha un impatto emotivo decisamente più forte: non è “tratto da una storia vera”, non è romanzato, non ha protagonisti con nomi di fantasia. Si tratta di esseri umani reali, in condizioni tragicamente reali.

Un video del genere sembra non avere filtri, ma non è così, tutto è culturalmente mediato: c’è una persona che sceglie di prendere un telefono cellulare per registrare qualcosa che ritiene gli altri debbano vedere. Lui forse non lo sa, ma questo gesto è figlio di una cultura ben precisa: quella dell’aiuto.

 

 

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